Se l’arte è diventata performance lo si deve a figure come Marina Abramović, che sfida da 77 anni le convenzioni dell’espressione
Parlare di performance art equivale a evocare inevitabilmente il nome di Marina Abramović, una figura centrale – e controversa – di questa forma d’arte. Ma cosa rappresenta esattamente la performance art? Si tratta di un genere espressivo che coinvolge il tempo, lo spazio e il corpo del performer, il quale, in presenza o assenza, spinge lo spettatore a interagire con la sua opera, come se si trattasse di di un’azione provocatoria.
Nata nel 1946 in Serbia, poi naturalizzata statunitense, Marina Abramović occupa una posizione centrale nella storia dell’arte contemporanea. La sua poetica, improntata su uno studio antropologico del comportamento umano, trova espressione nella performance art, un medium fatto di esperienze profonde e toccanti sia a livello sensoriale sia psicologico. Le sue opere, caratterizzate da una tensione emotiva palpabile e da una riflessione razionale penetrante, colpiscono direttamente il cuore del pubblico.
Pertanto, in occasione del suo 77esimo compleanno, è doveroso ripercorrere i passi biografici e artistici della carriera di Marina di Abramović, esaminando il suo rapporto unico e profondamente interconnesso con l’artista tedesco Ulay, sia sul piano professionale sia personale, perdurato – con lunghi addi e incredibili ritorni – fino alla morte di lui nel 2020.
La serie Rhythms rappresenta una delle sfide più impegnative per Marina Abramović, messa in scena tra il 1973 e il 1974. Nella Numero 5, una delle performance più pericolose della serie, l’artista si distese al centro di una stella a cinque punte di legno, ordinando successivamente che la stanza in cui si trovava fosse avvolta dalle fiamme. L’accesso alla stanza era limitato e solo dopo qualche minuto chi era presente si rese conto che il fumo aveva reso l’aria irrespirabile, tanto che l’artista aveva perso i sensi. Abramović era disposta a sacrificarsi per l’arte, come aveva spesso rischiato di fare in molte delle sue performance, ma fu salvata appena in tempo.
Da menzionare all’interno della serie omonima è Rhythm 0, un’altra delle provocazioni più celebri di Marina Abramović, che si svolse a Napoli nel 1974. In questa performance, l’artista si posizionò immobile al centro di una stanza, circondata da oggetti che variavano da coltelli e forbici a corde, lamette, piume e persino una pistola. A questo punto, agli spettatori veniva conferito per sei ore il potere totale di cosa fare: potevano interagire con l’artista nel modo che preferivano, lei non avrebbe reagito. Nel corso delle ore, l’esperimento prese una piega inaspettata. Dall’iniziale tranquillità, alcuni spettatori iniziarono a tagliare i suoi vestiti e la sua pelle, legarla e persino puntarle contro la pistola. La tensione crebbe fino a sfiorare un conflitto fisico.
Rhythm 0 mise alla prova i limiti dell’interazione umana, evidenziando la fragilità della linea tra l’arte e l’aggressione. La performance si trasformò in un ritratto provocatorio della natura umana, sottolineando la potenza dell’arte nel provocare reazioni viscerali e mettere a nudo la complessità delle dinamiche sociali.
Insieme al compagno tedesco Ulay, Marina Abramović ha dato vita a un sodalizio artistico e sentimentale unico. Una delle loro prime opere celebri è stata Rest/Energy nel 1980. In questa performance iconica, posizionati su fronti opposti, i due artisti si fissano negli occhi a pochi centimetri di distanza. Ulay tiene un arco con la freccia puntata al cuore di Marina, mentre lei sorregge l’arma dalla parte opposta, lasciandosi cadere all’indietro.
Con due piccoli microfoni posizionati strategicamente, gli spettatori potevano ascoltare i battiti cardiaci accelerati dei due artisti, per cogliere la tensione emotiva e il rischio fisico intrinseco all’opera. Rest/Energy diventa così un’esperienza sensoriale coinvolgente, un dialogo viscerale tra due individui legati dall’arte e dall’intimità.
Ancora in coppia, Abramović e Ulay hanno dato vita a Imponderabilia, un’opera in cui entrambi, completamente nudi, si ergono uno di fronte all’altro, proprio sui lati opposti della porta d’ingresso di uno spazio espositivo. Gli spettatori si trovano così di fronte a una scelta inderogabile: passare, dando le spalle a lei o a lui. La performance, originariamente concepita per durare tre ore, venne però interrotta dopo le prime due dalle Forze dell’Ordine, perché giudicata oscena.
Imponderabilia mette alla prova il pubblico, costringendolo a oltrepassare le proprie convenzioni sociali e le norme culturali. La nudità degli artisti e la posizione strategica sulla soglia della porta trasformano la decisione di passare attraverso l’entrata in un momento intimo e visceralmente personale.
Una delle opere più provocatorie di Marina Abramović, insignita del Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1997, è intitolata Balkan Baroque. In questa straordinaria performance, l’artista rimase per giorni seduta in uno spazio angusto e semibuio, circondata da ossa e frattaglie di animali morti. In uno stato quasi immobile, intonava litanie incomprensibili e puliva in modo ossessivo i resti intorno a lei. Balkan Baroque si configurò come un potente atto di denuncia contro gli orrori della guerra nei Balcani, di cui l’opinione pubblica aveva scarsa consapevolezza. La performance trasmetteva un messaggio viscerale sulla devastazione e la violenza, sottolineando la brutalità degli eventi in corso.
Il “divorzio” sentimentale e professionale tra Marina Abramović e Ulay si trasformò in un’opera d’arte performativa straordinaria: The Lovers, del 1988. Questa epica performance fu strutturata come un simbolico viaggio lungo la Muraglia Cinese, con i due artisti che partirono da estremi opposti, camminando a piedi per incontrarsi a metà strada.
L’intero spettacolo era un’eloquente metafora della loro relazione, con la Muraglia Cinese a fungere da palcoscenico imponente e impenetrabile. Durante il loro cammino, attraversando distanze fisiche e simboliche, Abramović e Ulay incarnarono la separazione e il desiderio di connessione. Quando finalmente si incontrarono a metà percorso, l’abbraccio tra i due diventò un commovente addio, ricco di tormento e profondità emotiva. The Lovers non fu solo la conclusione di una partnership artistica, ma anche il punto culminante di una storia d’amore intensa.
Nel 2010, Marina Abramović ha presentato al MoMA di New York The Artist Is Present. Per tre mesi, l’artista si è seduta a un tavolo, offrendosi al pubblico che poteva sedersi di fronte a lei e fissarla negli occhi. La sua impassibilità ha lasciato tutti attoniti, creando un’esperienza intensa. Ma ciò che ha reso questo evento ancora più straordinario è stato un colpo di scena: dopo ventitré anni dalla loro separazione esistenziale e artistica, è improvvisamente apparso Ulay.
Davanti agli occhi del pubblico, i due artisti si sono incontrati, guardandosi negli occhi con una profondità che solo il tempo e la distanza possono conferire. In quel momento, Abramović ha preso le mani di Ulay, con il quale si è unita in un pianto silenzioso. È rimasto un ricordo indelebile, un incontro che ha riportato alla luce un amore che, con la sua potenza artistica, ha segnato per sempre le loro vite e scritto un capitolo indelebile nella storia della performance.
Da grande artista, Marina Abramović ha già proiettato nel futuro la sua arte, delineando ciò che sarà la sua ultima maestosa performance, dall’eloquente titolo Grandmother Of Performance. Questo straordinario evento si svolgerà nel giorno del suo funerale, in un atto che va oltre il confine tra la vita e l’arte. La cerimonia avrà luogo in tre città che hanno giocato un ruolo cruciale nella vita dell’artista: Belgrado, Amsterdam e New York.
In un gesto carico di mistero e simbolismo, tre bare saranno presenti durante le cerimonie in ognuno dei luoghi deputati. Ciascuna di esse rappresenterà un capitolo significativo della vita di Marina Abramović. Tuttavia, solo una di queste bare conterrà effettivamente il corpo dell’artista. Nessuno, forse mai, sarà in grado di svelare quale bara racchiude veramente i resti mortali di Marina Abramović. Questo atto finale, orchestrato con un tocco di enigma, diventa un’opera d’arte postuma, un’ultima performance che sfida il concetto tradizionale di fine e apre la porta a riflessioni profonde sulla vita, la morte e il mistero che avvolge l’identità stessa dell’artista.
Marina Abramović, nata a Belgrado, in Serbia, il 30 novembre 1946, porta con sé un retaggio di senso storico e spiritualità. Figlia di Vojin Abramović e Danica Rosić, entrambi partigiani durante la seconda guerra mondiale, e nipote di un patriarca della chiesa ortodossa serba, il suo percorso artistico prende avvio all’Accademia di Belle Arti di Belgrado, dove studia dal 1965 al 1973. È qui che inizia a sviluppare una consapevolezza profonda dell’artisticità del corpo umano, un tema che diventerà centrale nella sua carriera.
Dopo il periodo a Belgrado, si trasferisce a Zagabria, in Croazia, dove intraprende i primi passi nella sua carriera artistica, immergendosi nell’esplorazione della performance e della corporeità. Nel 1976, lascia l’Europa dell’Est e un matrimonio infelice per dirigersi verso Amsterdam. Qui, avviene l’incontro destinato a plasmare il corso della sua vita artistica: Abramović conosce l’artista tedesco Ulay, ai tempi Frank Uwe Laysiepen, un ex ingegnere che aveva trovato nella forma espressiva e performativa la sua vera vocazione.
La collaborazione tra Marina Abramović e Ulay diventa un capitolo epico nell’arte contemporanea. Insieme, realizzano performance che lasciano un’impronta indelebile nella storia artistica mondiale. La loro connessione artistica si intreccia in modo viscerale nella loro relazione personale, che culmina in una dolorosa separazione nel 1988.
Dopo oltre due decenni di carriere separate, i destini di Marina Abramović e Ulay si riconnettono in modo straordinario nel 2010 a New York durante la performance The Artist Is Present. La performance al MoMA diventa un evento iconico, con Marina seduta immobile mentre gli spettatori possono sedersi di fronte a lei, stabilendo connessioni silenziose e intense.
La storia di Marina Abramović è un viaggio attraverso il coraggio artistico, la forza emotiva e la ricerca incessante della verità. La sua capacità di mettersi in gioco, esplorare i confini della performance e affrontare la complessità delle relazioni umane ha reso la sua carriera un faro nell’oceano dell’arte contemporanea.
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